Le regole sulle distanze delle pareti con vedute si applicano in caso di facciata con presenza di balconi aggettanti

I balconi aggettanti, consentendo l’affaccio sia in senso anteriore che laterale su entrambi i lati, costituiscono immancabilmente delle vedute.

Il caso. Un immobiliare acquistava un terreno appartenuto ad un opificio ormai chiuso e, in detto luogo, realizzava un condominio. Il predetto veniva convenuto in giudizio da un condominio il quale, sito su un terreno adiacente, lamentava come i nuovi arrivati avessero edificato la struttura in violazione delle norme sulle distanze e – in particolare – senza rispettare la disposizione che imponeva una distanza minima di 10 metri ossia il d.m. n. 1444/1968. Tale norma rubricata Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17, legge n. 765/1967 prevedeva all’art. 9 che, in ambito di edifici non di valore storico e culturale, è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti . Il Tribunale adito, in accoglimento della domanda, condannava l’immobiliare alla riduzione in prestino del muro eccedente i 10 metri sino a garantire detta distanza, nonché la refusione dei danni e delle spese arrecati all’attore. La Corte d’Appello, in modo non dissimile, rilevava come l’edificio oggetto del giudizio fosse posto sul confine, con applicazione dell’art. 873 c.c., il quale dispone una distanza minima di 3 metri dalla vecchia costruzione e prevede la possibilità di deroga con fonti integrative locali. Tale potere di deroga trovava comunque un limite nel citato d.m. n. 1444/1968, che stabiliva un limite minimo inderogabile dai piani regolatori locali. Il condominio, quindi, si vedeva accogliere la propria domanda anche in grado di appello. L’immobiliare agisce in Cassazione depositando un articolato ricorso. Alla luce della duplice soccombenza nei gradi di merito l’immobiliare agiva in Cassazione con un lungo ricorso, articolato in otto motivi di doglianza. I primi tre, per affinità, devono essere trattati congiuntamente mediante queste doglianze il ricorrente sostanzialmente lamentava come la normativa citata non potesse essere applicata al caso in questione in quanto la parete edificata non avesse finestre in grado di essere qualificate come vedute, ma solo piccole feritoie destinate a facilitare l’accesso di luce alla struttura. Dette feritoie, peraltro, erano dotate di una sbarra anti affaccio che rendeva materialmente impossibile l’utilizzo come veduta. Il quarto motivo, denunciava come la sentenza di appello non si fosse pronunciata sulla domanda dell’appellata di limitare la condanna all’esecuzione di opere necessarie a garantire il rispetto dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, evitando così la demolizione di parte dell’edificio. Con la quinta doglianza, invece, la ricorrente lamentava come il giudice avesse condannato la società a demolite l’intera facciata dell’immobile nonostante questa avesse di fronte solamente una parete priva di finestre della convenuta. Il sesto motivo riguardava invece la circostanza di come la Corte d’Appello non avesse correttamente valutato le risultanze della CTU espletata in primo grado, richiamando le pagine da 15 a 19 seppure questa constasse di sole 9 pagine. Il settimo e ottavo motivo di ricorso erano inerenti alla mancata valutazione di come l’edificio fosse sito nel centro storico della cittadina e quindi non dovessero allo stesso applicarsi le severe normative di cui al d.m. n. 1444/1968 in quanto, dato il valore storico e culturale dell’area, questa avrebbe escluso il palazzo dalla disciplina sulle distanze. La Cassazione rigetta integralmente il ricorso e condanna l’immobiliare alle spese del giudizio. Il lungo e articolato ricorso della società immobiliare non trovava il favore della Seconda Sezione della Cassazione la quale, con la sentenza 19 febbraio 2019, n. 4834, lo rigettava integralmente. Appare interessante esaminare nel dettaglio le motivazioni del deciso rigetto della Suprema Corte. Quanto ai primi tre motivi, il giudice di legittimità rilevava come l’argomentazione della ricorrente fosse fallace secondo l’immobiliare, difatti, per poter applicare il d.m. n. 1444/1968 sarebbe stato necessario che su entrambe le pareti degli edifici coinvolti si aprissero delle finestre. Stante la circostanza che nel presente caso nell’edificio di controparte vi fosse un semplice muro e sul palazzo della ricorrente delle luci che non consentivano la veduta , i Giudici di merito avrebbero errato nel considerare il nuovo palazzo come costruito in violazione della normativa, che non si sarebbe attagliata al caso concreto. La Cassazione, tuttavia, negava detta visione della questione affermando come nel palazzo della parte ricorrente vi fossero, oltre alle citate luci, anche dei balconi aggettanti che consentivano l’affaccio sia in senso anteriore che laterale su entrambi i lati, costituendo immancabilmente delle vedute. È vero infatti che per applicare il d.m. n. 1444/1968 non è necessaria la presenza di finestre utilizzate come vedute, ma anche solo pareti munite di qualsiasi genere di aperture verso l’esterno così TAR L’Aquila, n. 788/2012 . La presenza dei balconi, quindi, legittimava l’applicazione della normativa in oggetto. Il quarto motivo di ricorso veniva rigettato in quanto secondo la giurisprudenza, in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il Giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla causa petendi Cass., n. 7809/2014 . Nonostante la parte convenuta avesse richiesto di potere semplicemente porre in essere interventi atti a limitare le vedute, il giudice di merito aveva ritenuto questa opzione non sufficiente a garantire le distanze legali e aveva deciso di imporre il parziale arretramento della struttura, limitando gli interventi alla sola parete oggetto di causa. Il quinto motivo era considerato privo di fondamento in quanto il d.m. n. 1444/1968 non impone che entrambi i palazzi abbiano delle vedute, ma fa derivare la sua applicazione dalla semplice presenza di una parete finestrata o con balconi così come nel caso corrente. Il rigetto del sesto motivo, conseguiva all’erroneità della censura della controparte in quanto il richiamo effettuato alle pagine 15-19 della perizia era da intendersi come riguardante le osservazioni del perito di parte attrice le quali, divenute parte integrante della CTU, erano state citate per pervenire alla decisione di merito. Il sesto e settimo motivo, trattati congiuntamente, venivano rigettati per la fallacia del ragionamento della parte ricorrente. Sebbene, infatti, la normativa preveda esenzioni dal regime delle distanze per gli edifici storici, questa non è prevista anche per quelli moderni costruiti in aree denominate centro storico . Secondo il ragionamento di parte ricorrente, difatti, il proprio edificio moderno avrebbe dovuto essere esentato dalla normativa sulle distanze in quanto edificato in una zona storica della città, acquisendo esso stesso la caratteristica di edificio storico. Nella scia di questa valutazione non si sarebbe dovuto applicare l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, ma l’art. 873 c.c. e il piano Regolatore del Comune dalla norma richiamato. Tale valutazione non è corretta e, come affermato dalla Cassazione, l’art. 9, comma 1, d.m. n. 1444/1968 - traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell’art. 41- quinquies l. n. 1150/1942 e prescrivendo per la Zona A, quanto alle operazioni di risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti – rappresenta una disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici, sicché, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, così che sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non sussista alcun preesistente volume Cass. 1616/2018 . In conseguenza al rigetto di tutti i motivi di ricorso la Cassazione respingeva il ricorso e condannava l’immobiliare alle spese del giudizio.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 3 ottobre 2018 – 19 febbraio 2019, n. 4834 Presidente Oricchio – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto 1. Il condominio omissis conveniva in giudizio la Immobiliare Raffaella S.r.l., lamentando che la convenuta aveva realizzato sull’area denominata omissis un fabbricato a confine con l’edificio condominiale, ma a distanza inferiore a quella di legge individuata nella previsione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9. Il Tribunale di Milano - sezione distaccata di Legnano rigettava la domanda ma la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 2123 del 18 maggio 2015, in accoglimento del gravame del condominio condannava la società convenuta a demolire ed arretrare le porzioni del fabbricato H, compresi i balconi sulle medesime aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10 dal frontistante condominio, secondo le indicazioni contenute nella CTU alle pagg. da 15 a 19, nonché al risarcimento del danno che quantificava nell’importo di Euro 10.000,00. Rilevavano i giudici di appello che le risultanze della CTU avevano permesso di evidenziare che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società appellata era posto a confine con l’edificio condominiale, dovendo quindi trovare applicazione l’art. 873 c.c. con il rinvio alle fonti integrative locali. Tuttavia il potere normativo secondario degli enti locali trovava un limite nelle previsioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, emanato in applicazione dell’art. 41 quinquies della legge urbanistica come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 17. Infatti, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, tale norma, sebbene non direttamente applicabile, è però inderogabile da parte degli enti locali che devono conformarsi a quanto nella stessa prescritto, con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali deve essere disapplicata, occorrendo assicurare il rispetto della distanza assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Per l’effetto, risultava erroneo quanto affermato dal Tribunale che aveva ritenuto di assicurare prevalenza alle previsioni delle NTA del PRG del Comune di Legnano, che invece non prescrivevano la detta distanza di metri 10 tra pareti finestrate. Pertanto, poiché la costruzione della società era da intendersi come edificio nuovo costruito in Zona Omogenea Speciale Piano Integrato di Intervento Area omissis , dalle risultanze della CTU emergeva che le pareti finestrate della convenuta si ponevano a distanza inferiore a metri 10 dalla facciata del fabbricato condominiale. Ciò imponeva quindi la condanna della società alla riduzione in pristino, con l’ordine di demolizione e/o arretramento sino alla distanza di metri 10. Infine, era reputata meritevole di accoglimento anche la domanda risarcitoria, sebbene limitata al solo danno subito temporaneamente dalla data della costruzione sino a quella in cui sarebbe stata eseguita la riduzione in pristino, danno equitativamente determinato nell’importo di Euro 10.000,00. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Immobiliare Raffaella S.r.l. sulla base di otto motivi illustrati da memorie. Il Condominio omissis ha resistito con controricorso. 3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 e dell’art. 113 c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di parete finestrata include le sole pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza quindi potere prendere in esame le semplici aperture lucifere. Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non consentono una possibilità di affaccio stante la collocazione di una sbarra metallica, dovendosi altresì escludere che abbia rilevanza ai fini della norma in esame la presenza di balconi o di una porta. Il secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la sentenza ha omesso di considerare l’assenza di finestre, intese quali vedute, sulla parete del fabbricato di parte convenuta, come peraltro sempre eccepito in tutti gli scritti difensivi. Il terzo motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 la nullità della sentenza per assenza di motivazione, quanto alla qualificazione della parete come finestrata, nonché per avere fatto riferimento esclusivo alla consulenza di parte attrice e non anche agli accertamenti del CTU, e ciò in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., art. 61 c.p.c. e artt. 24 e 111 Cost I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati. Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l’arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali , come confortato anche dalla lettura del dispositivo. La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la previsione di cui al citato D.M. del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame. Ritiene il Collegio che tuttavia l’interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame. In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016 , poiché nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 - il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute , senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette lucifere conf. Cass. n. 6604/2012 . Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell’ampiezza dell’angolo , e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l’applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 5/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché T.A.R. L’Aquila, Abruzzo , 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per pareti finestrate , non solo le pareti munite di vedute , ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento . Ne consegue che, attesa la presenza di balconi lungo la parete dell’edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l’affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda. Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società. 4. Il quarto motivo denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda subordinata proposta dall’appellata con la conseguente violazione dell’art. 1123 c.p.c. e degli artt. 24 e 111 Cost Si deduce che la società nel corso del giudizio di merito ha richiesto, in via subordinata, che la condanna fosse limitata all’esecuzione delle opere necessarie a garantire il rispetto del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, mediante la trasformazione delle finestre in luci o mediante le altre opere che la Corte di Appello avesse voluto stabilire, con esclusione della demolizione parziale dell’edificio, ma tale richiesta non è stata in alcun modo presa in esame. Anche tale motivo è destituito di fondamento. Ed, invero, deve in primo luogo farsi richiamo al costante orientamento di questa Corte secondo cui cfr. Cass. n. 7809/2014 in tema di violazione delle distanze legali, non incorre in ultrapetizione il giudice che, richiesto dell’ordine di demolizione della costruzione, ne ordini il semplice arretramento, essendo la decisione contenuta nei limiti della più ampia domanda di parte, senza esulare dalla causa petendi , intesa come l’insieme delle circostanze di fatto poste a fondamento della pretesa conf. Cass. n. 475/2002 Cass. n. 1411/1999 . Nel caso in esame, assume tuttavia la ricorrente che aveva chiesto che la condanna, una volta riscontrata la violazione delle previsioni di cui al citato art. 9, fosse limitata alla sola adozione delle opere necessarie a garantire il rispetto della norma, con la trasformazione delle finestre in luci, ovvero delle altre opere che la Corte d’Appello avesse ritenuto di stabilire. Ed, invero, in disparte il difetto di specificità del motivo nella parte in cui, pur denunciando un error in procedendo omette di riprodurre con precisione il contenuto delle deduzioni difensive alle quali fa riferimento, e dalle quali si dovrebbe desumere la violazione dell’art. 112 c.p.c. cfr. sul rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 anche in caso di denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, Cass. S.U. n. 8077/2012 , non ignora il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte cfr. Cass. n. 9640/2006 , allorquando il soccombente nel giudizio in tema di distanze per l’apertura di vedute e balconi impugni la sentenza del giudice di merito che lo abbia condannato alla demolizione dei propri balconi realizzati a confine in violazione dell’art. 905 cod. civ., deducendo che era sufficiente, ai fini del rispetto delle predette distanze, l’adozione di diversi specifici accorgimenti, deve affermarsi che l’eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione di legge lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il prospicere e l’ inspicere in alienum conf. Cass. n. 2343/1995 . Trattasi però di giurisprudenza che appare essenzialmente maturata nell’ambito della dedotta violazione delle distanze delle vedute, laddove nella vicenda in esame si dibatte in materia di distanze tra costruzioni, nella quale la presenza delle vedute è un presupposto fattuale per l’applicazione della più restrittiva norma di cui al menzionato art. 9. Inoltre, come si ricava dalla lettura del motivo, la società aveva chiesto adottarsi i rimedi alternativi per la trasformazione delle vedute in luci, ma ciò sul presupposto, confermato dalla lettura dei primi tre motivi, che non spiegassero alcuna rilevanza ai fini della decisione i balconi pur esistenti lungo la facciata dell’edificio, balconi che invece sono da ritenersi decisivi ai fini della nozione di parete finestrata. È il balcone in sé che legittima l’esercizio della veduta, avendone la sentenza impugnata disposto l’arretramento. L’assenza di qualsivoglia riferimento ai balconi nelle richieste subordinate della società esclude pertanto che possa riscontrarsi la detta violazione dell’art. 112 c.p.c 5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 nonché dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre. Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell’intera parete. Il motivo è privo di fondamento. Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale Cass. n. 5017/2018 è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute. Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l’interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità. Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007 ai fini dell’osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il D.M. n. 1444 del 1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata. Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011 che, attesa l’idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi. Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015, ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate. Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte. Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che cfr. Cass. n. 8383/1999 ai fini dell’applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che cfr. Cass. n. 11404/1998 il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perché la ratio di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti. Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell’intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui cfr. Cass. n. 13547/2011 ai fini dell’applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo ratio della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento . Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l’art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell’applicazione dell’art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell’uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l’arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82 . 6. Il sesto motivo denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto avrebbe condannato la società a demolire parzialmente l’edificio sino a garantire il rispetto della distanza di metri 10, secondo le indicazioni della CTU di cui alle pagg. da 15 a 19. Si deduce che però la relazione del CTU si compone di sole nove pagine e che la stessa non consente di stabilire quali opere debbano essere realizzate. Il motivo è privo di fondamento. Ed, invero, quanto al numero delle pagine della CTU, il motivo difetta evidentemente del requisito di specificità avendo omesso di riprodurre in ricorso, in conformità di quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio. Peraltro, la difesa della controricorrente ha evidenziato che in realtà all’elaborato d’ufficio risultano allegate, venendo ad integrarne il contenuto, anche le osservazioni del perito di parte attrice, che appunto occupano le pagine da 15 a 19 di cui si fa menzione in sentenza. La stessa sentenza inoltre alla pag. 6 ha esattamente individuato le porzioni del fabbricato rispetto alle quali è stato riscontrato il mancato rispetto della distanza legale, facendo proprie le considerazioni di cui alle pagine ivi indicate, e mostrando in tal modo di condividerne la correttezza, ancorché siano poi materialmente attribuibili alle osservazioni del consulente di parte attrice. Infine, e considerato per quanto sopra esposto che l’ordine di demolizione ed arretramento deve intendersi esteso all’intera parete del fabbricato di parte ricorrente, laddove fronteggia l’edificio dell’attore, la condanna di cui al capo 1 del dispositivo non è affetta da indeterminatezza o genericità, ben potendosi in ogni caso supplire alle eventuali difficoltà di esecuzione con le modalità di cui all’art. 612 c.p.c 7. Il settimo motivo di ricorso lamenta l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio costituito dalla collocazione dell’edificio della ricorrente nel centro storico di Legnano. Infatti, anche il CTU aveva riferito della circostanza de qua, la quale era idonea ad incidere sull’applicazione della previsione di cui all’art. 9 del citato DM. L’ottavo motivo denuncia quindi la violazione del menzionato art. 9 nonché dell’art. 113 c.p.c., in quanto, stante la collocazione dell’edificio nel centro storico, non poteva invocarsi la previsione del distacco di metri 10 tra pareti finestrate, atteso che tale norma ha riguardo esclusivo alle costruzioni realizzate in zona diversa dal centro storico. I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati. Ed, invero, quanto alla collocazione dell’edificio di parte ricorrente, va osservato che la sentenza impugnata alla pag. 6 ha puntualmente individuato la sua ubicazione dal punto di vista urbanistico, facendo riferimento al suo inserimento nella Zona Omogenea Speciale - Piano Integrato di Intervento Area omissis , escludendo pertanto che il manufatto possa essere incluso nell’ambito della cd. zona A. Atteso che ai sensi dell’art. 2 dello stesso DM, per zona A si intendono le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi, non può sostenersi che si tratti di nozione perfettamente sovrapponibile a quella peraltro del tutto generica di centro storico. Inoltre anche a voler sul punto superare il difetto di specificità del ricorso, che del pari non riporta in maniera compiuta il contenuto della CTU, quanto alla precisa collocazione del bene nell’ambito della zonizzazione del territorio del Comune di Legnano, risulta prevalente e non adeguatamente contestata l’affermazione del giudice di merito che ha sottolineato come l’immobile sia inserito in una zona omogenea speciale, il che consente di invocare la previsione di cui al n. 2 del menzionato art. 9 che quanto alle distanze dispone che 2 Nuovi edifici ricadenti in altre zone è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti . Ne risulterebbe quindi confermata la correttezza della soluzione alla quale è pervenuta la Corte distrettuale. Va tuttavia evidenziato che anche laddove volesse opinarsi per il diverso inserimento del fabbricato nella zona A, come sembra auspicare parte ricorrente, ciò non produrrebbe vantaggi per la parte, atteso che alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità Cass. n. 1616/2018 Cass. n. 29732/2017 l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968 - traendo la sua forza cogente dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies, commi 8 e 9 e prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti -, rappresenta una disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici, sicché, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, così che sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non sussista alcun preesistente volume. Nel caso in esame, attesa la qualificazione dell’edificio della ricorrente operata dai giudici di appello come edificio nuovo pag. 6, rigo 23 , la sua inclusione nella zona A, lungi dal giustificare l’applicazione di nome in materia di distanze meno restrittive, ne imporrebbe la totale demolizione, attesa la necessità di rispettare le distanze tra i volumi preesistenti, non apportando quindi alcun concreto vantaggio per la parte. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. 8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. 9. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.