Non sempre l’occupazione di parte comune dà diritto al risarcimento dei danni

Il danno per illegittima occupazione di parti comuni è da ritenersi in re ipsa solo qualora, in seguito a tale occupazione, uno o più condomini siano stati totalmente privati della disponibilità della cosa.

Questo il condivisibile principio di diritto espresso dall’ordinanza in oggetto n. 468/19, depositata il 10 gennaio. Il caso. La causa veniva promossa avanti al Tribunale di Reggio Calabria da alcuni condomini i quali lamentavano, tra le altre cose, l’avvenuta illegittima occupazione, da parte di altri condomini, di una parte comune del condominio. In particolare i convenuti, a dire degli attori, avevano esercitato tale occupazione ampliando in lunghezza e per tutta la larghezza un locale ricompreso nella propria unità abitativa. Conseguenza di tale ampliamento, pertanto, sarebbe stato il restringimento della superficie condominiale destinata a parcheggio condominiale. Il diritto al risarcimento del danno nel caso di illegittima occupazione di parte comune non può essere concesso in via presuntiva. I convenuti resistevano, con varie argomentazioni, alle avverse domande. Il giudice di prime cure accoglieva la richiesta degli attori condannando i convenuti sia alla demolizione della parte di garage da loro edificata su terreno condominiale, e sia al risarcimento del danno quantificato in euro 3.000 oltre interessi. Il giudizio di appello, promosso dai soccombenti, si concludeva con la decisione della Corte di Reggio Calabria di revocare la condanna dei convenuti-appellanti al risarcimento dei danni a causa della illegittima occupazione. Dato atto che nelle more della sentenza di primo grado gli stessi convenuti avevano spontaneamente provveduto alla demolizione del manufatto abusivo, la Corte calabrese aveva rilevato come nel corso del giudizio di primo grado non si fosse fornita debita prova che, in seguito alla illegittima occupazione, i convenuti fossero stati completamente privati della possibilità di utilizzo del parcheggio condominiale. Solo in questo caso, infatti, secondo i giudici di secondo grado, sarebbe stato corretto prevedere un risarcimento in favore dei danneggiati nei confronti dei danneggianti. In assenza di tale prova, viceversa, la richiesta di risarcimento doveva esser respinta non potendo operare un criterio presuntivo fondato esclusivamente sulla avvenuta occupazione. La Cassazione, investita della questione, accoglieva la tesi della corte di appello confermandone la decisione sul punto. In particolare, i giudici delle leggi rilevavano come in materia di comunione, laddove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei comunisti in via esclusiva della cosa comune in modo da impedirne agli altri comproprietari il pari uso anche solo in via potenziale, il danno deve ritenersi in re ipsa” esclusivamente qualora si sia fornita prova, nel giudizio, della totale impossibilità di utilizzo della cosa stessa da parte dei danneggiati. Nel caso discusso, viceversa, osservava la cassazione, era fuori di dubbio che vi fosse stata un occupazione parziale abusiva di parte comune, così come che a tale occupazione avessero poi spontaneamente posto fine gli stessi danneggianti. Mancava però la prova delle conseguenze di tale violazione in capo ai danneggiati e cioè che essi fossero stati anche solo per un breve periodo totalmente privati dell’utilizzo della cosa comune. Il risarcimento in seguito ad occupazione abusiva, in sostanza, secondo la Suprema corte è da ritenersi in re ipsa, e cioè non necessità di essere dimostrato, solo qualora sia fornita prova della totale avvenuta espromissione di alcune dal possesso della parte comune. Qualora tale prova non sia fornita la richiesta andrà viceversa respinta.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 29 maggio 2018 – 10 gennaio 2019, n. 468 Presidente Oricchio – Relatore Dongiacomo Fatti di causa R.A., con citazione notificata il 18/4/1998, ha convenuto in giudizio, innanzi al pretore di Palmi, C.S. e L.P.S. nonché L.P.S. e Co.Ad. . L’attrice ha esposto - di essere comproprietaria di un immobile per civile abitazione sito a omissis , e, precisamente, dell’appartamento ubicato al primo piano, confinante, tra l’altro, con terreno condominiale - che dal titolo di acquisto emergeva che il terreno condominiale sarebbe stato destinato ad parcheggio delle autovetture e che agli acquirenti sarebbe stato attribuito un posto macchina - che l’appartamento sottostante, sito al piano terra, era di proprietà dei coniugi C.S. e L.P.S. - che negli ultimi giorni del mese di febbraio del 1995, L.P.S. ha eseguito opere e manufatti edilizi, ledendo i diritti dell’istante in particolare, a aveva ampliato in lunghezza e per tutta la larghezza un locale ricompreso nell’unità abitativa e limitante con la corte comune, occupando una striscia di terreno condominiale e restringendo la superficie destinata a parcheggio comune b aveva edificato in una striscia di terreno destinata quale corte esclusiva del proprio appartamento, un manufatto, realizzando un solaio in cemento armato su trave di coronamento, di ml. 4,90 di lunghezza e di ml. 4,90 di larghezza, in aderenza ad un balcone preesistente, ottenendo in tal modo un vano abitativo nella parte immediatamente sottostante al balcone dell’appartamento dell’istante - che per tale attività edilizia, la L.P. era stata condannata dal pretore alla pena di un mese di arresto e di L. 8.000.000 di ammenda che l’opera sub a aveva occupato un’area condominiale, con la conseguente sottrazione della possibilità di godimento comune da parte dei singoli comunisti, in violazione dell’art. 1102 c.c. - che l’opera sub b viola la norma dell’art. 907 c.c. - che, infine, L.P.S. e Co.Ad., proprietari del lastrico solare del fabbricato, sul quale era stato realizzato un piano mansardato, avevano ritenuto, per l’allocazione delle grondaie e dei pluviali al servizio della propria unità abitativa, di attraversare la proprietà esclusiva dell’attrice, forandone i balconi. L’attrice, quindi, ha chiesto che accertata la natura condominiale del suolo oggetto dell’illecita occupazione da parte di L.P.S., fosse ordinata la demolizione dell’opera realizzata accertata l’avvenuta costruzione ad opera della L.P. del manufatto a distanza non legale dalle vedute dell’immobile di proprietà dell’attrice, che fosse ordinata la demolizione dell’opera per la parte eccedente il limite di legge accertata l’avvenuta allocazione sulla proprietà esclusiva dell’attrice delle pluviali di scarico delle acque meteoriche da parte del L.P. e della Co., di ordinare la rimozione delle opere, con il risarcimento dei danni cagionati. Si sono costituiti in giudizio tanto i coniugi C. e L.P., quanto L.P.S., chiedendo il rigetto della domanda proposta dall’attrice. Quest’ultimo, in via riconvenzionale, ha chiesto di costituire servitù di scarico coattivo, sul fondo di proprietà dell’attrice, ai sensi degli artt. 1033 e 1043 c.c Co.Ad. è rimasta, invece, contumace. Il tribunale, con sentenza del 24.29/3/2004, ha accolto le domande dell’attrice ed ha, per l’effetto, disposto la demolizione tanto della parte di garage costituente ampliamento dello stesso realizzata su terreno condominiale, quanto del vano abitativo con struttura in c.a., poggiante su quattro pilastrini di mt. 4,90 x mt. 4,90, meglio identificati nella consulenza tecnica in atti. Il tribunale, poi, ha rigettato la domanda riconvenzionale di L.P.S. ed ha condannato C.S. e L.P.S. al risarcimento del danno nei confronti dell’attrice, che ha quantificato in Euro 3.000,00, oltre interessi. C.S. e L.P.S., con citazione notificata il 12/5/2005, hanno proposto appello, affidandolo a quattro motivi e chiedendo, in via preliminare, di dare atto dell’avvenuta demolizione della parte di garage costituente ampliamento dello stesso realizzata su terreno condominale, con la conseguente cessazione della materia del contendere, e di rigettare, per il resto, le domande dell’attrice o, in subordine, di ridurre l’ammontare del danno quantificato in primo grado, per difetto di prova. L.P.S., L.P.A.M., L.P.A. e L.P.F., il primo anche in proprio e gli altri tre quali eredi di Co.Ad., si sono costituiti ed, in accoglimento dell’appello incidentale, hanno chiesto di condannare R.A. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, oltre che di quelle dell’appello. La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha accolto l’appello principale e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda ex art. 907 c.c. e la domanda risarcitoria proposte da R.A., condannando quest’ultima al pagamento delle spese processuali nei confronti degli appellanti incidentali, quali eredi di Co.Ad. . La corte, in particolare, esaminando l’appello principale proposto da C.S. e L.P.S., ha ritenuto fondato il secondo ed il terzo motivo, con i quali gli appellanti hanno dedotto, in sostanza, che la fabbrica della R. non presenta alcuna delle caratteristiche necessarie per l’esercizio della veduta. La corte, sul punto, dopo aver ricordato che, per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum , vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente , siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza, ha ritenuto che, nel caso in esame, deve escludersi l’esistenza della pretesa veduta dal balcone della R. tale balcone, infatti, ha osservato la corte, in quanto privo di parapetto, non consente una comoda e non pericolosa inspectio , essendo manifestamente inidoneo a preservare l’eventuale osservatore dal pericolo di cadute . Del resto, ha aggiunto la corte, in tanto una veduta può configurarsi, in quanto l’apertura, il terrazzo o il balcone da cui la stessa sia praticata, risultino, a norma dell’art. 905 c.c., comma 2, muniti di parapetto idoneo a consentire di guardare e di mostrarsi senza esporsi a pericolo di cadute. La corte, quindi, ha ritenuto che la pronuncia con la quale il tribunale ha accolto la domanda proposta ai sensi dell’art. 907 c.c. dalla R. non fosse corretta ed ha, quindi, in accoglimento del secondo e del terzo motivo d’appello, rigettato la domanda medesima. La corte, inoltre, ha ritenuto fondato anche il quarto ed ultimo motivo dell’appello principale, con il quale i coniugi C. -L.P. si erano doluti dell’accoglimento della domanda risarcitoria spiegata dall’attrice sul rilievo che l’appartamento dell’attrice non aveva subito danni in conseguenza dell’esecuzione delle opere. La corte, sul punto, ha rilevato che i danni sarebbero astrattamente configurabili solo in rapporto all’occupazione del terreno condominiale determinata dall’ampliamento del vano garage, occupazione poi venuta mano a seguito dell’emissione della sentenza impugnata solo che, ha aggiunto la corte, pur essendo stato accertato che tale occupazione abusiva si è protratta nel tempo, non vi sono elementi per affermare che essa fosse estesa al punto da impedire alla R., in quanto condomina, l’uso, anche solo potenziale, dell’area comune destinata a parcheggio, per cui, difettando la prova ed, a monte, anche l’allegazione di un concreto pregiudizio economico subito dalla R. a seguito della realizzazione dell’ampliamento del vano garage ed escluso che il danno fosse in re ipsa, nessuna somma doveva essere alla stessa liquidata a titolo risarcitorio. La corte, quindi, ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere anche in tale parte riformata, con il rigetto della domanda di risarcimento dei danni spiegata dalla R. . La corte, infine, ha ritenuto parzialmente fondato l’unico motivo di appello incidentale con il quale L.P.S., L.P.A.M., L.P.A. e L.P.F. si sono doluti della condanna del primo e di Co.Ad. al pagamento delle spese di lite del giudizio di primo grado. La corte, in particolare, ha ritenuto che la condanna nei confronti della Co., rimasta contumace, al pagamento delle spese processuale fosse erronea, dato il rigetto della domanda spiegata nei suoi confronti. La corte, invece, quanto a L.P.S., ha ritenuto che quest’ultimo, vittorioso rispetto alla domanda dell’attrice, è rimasto soccombente in relazione alla domanda riconvenzionale proposta, rigettata dal tribunale con statuizione divenuta definitiva. Ne consegue, ha osservato la corte, che, avendo riguardo all’esito complessivo del giudizio tra la R. ed il L.P., si è determinata una situazione di soccombenza reciproca, che giustifica l’integrale compensazione tra i medesimi delle spese di lite. La R., invece, dev’essere condannata a rimborsare agli appellanti incidentali, quali eredi di Co.Ad., le spese dell’appello mentre nulla dev’essere disposto sulle spese di primo grado poiché la Co., pur vittoriosa, è rimasta contumace. R.A., con ricorso notificato il 26/6/2014, ha proposto, per tre motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata. Hanno resistito, con controricorso, C.S. e L.P.S. . L.P.S., L.P.A.M., L.P.A. e L.P.F. sono rimasti intimati. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa. Le ragioni della decisione 1.Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1102, 2697, 2043, 2056 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni nei confronti di C. e L.P., escludendo che il danno fosse in re ipsa, laddove, al contrario, il fatto illecito commesso dai convenuti, e cioè l’occupazione abusiva, protrattasi nel tempo, di una porzione di suolo condominiale, in violazione dell’art. 1102 c.c., con la materiale realizzazione di un’opera, ha necessariamente inibito la naturale destinazione d’uso del bene ed ostacolato la libera fruibilità dell’area, in tal modo evidentemente interclusa, agli altri comproprietari e, quindi, alla R. la quale non ha avuto alcuna possibilità di servirsi, anche solo potenzialmente, dello spazio di proprietà condominiale. Ne consegue che, a fronte dell’occupazione abusiva di un’area condominale, il danno è in re ipsa ed, in quanto tale, liquidabile senza una prova specifica a carico dell’istante circa l’effettivo pregiudizio subito che, nella specie, è configurabile nella semplice perdita di disponibilità del bene, anche solo potenziale. 2. Il motivo è infondato. In materia di comunione, infatti, laddove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri comproprietari, il danno deve ritenersi in re ipsa Cass. n. 11486 del 2010 . Nel caso di specie, la corte d’appello, con accertamento in fatto non suscettibile di sindacato in questa sede, ha ritenuto che, nel caso in esame, non vi fossero elementi per affermare che l’occupazione del suolo condominiale operata dai coniugi C. - L.P. sia stata a tal punto estesa da impedire alla R., in quanto condomina, l’uso, anche solo potenziale, dell’area comune destinata a parcheggio. Ed una volta escluso, in fatto, che l’occupazione, ancorché abusiva e protratta nel tempo, abbia effettivamente impedito alla R. l’uso della area comune, deve, per l’effetto, necessariamente escludersi la sussistenza di un danno risarcibile. 3.Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 900, 905 e 907 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda di demolizione del manufatto realizzato in violazione delle distanze legali delle costruzioni dalle vedute sul rilievo che, per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alla regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum , vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente , siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza, laddove, nella specie, il balcone della R., in quanto privo di parapetto, non consente una comoda e non pericolosa inspectio , essendo manifestamente inidoneo a preservare l’eventuale osservatore dal pericolo di cadute . La corte d’appello, tuttavia, ha osservato la ricorrente, non ha sufficientemente approfondito i dati oggettivamente emersi dall’istruttoria del giudizio, operando una parziale ricostruzione dei fatti di causa ed analizzando in maniera acritica e superficiale lo stato dei luoghi, ed ha omesso, quindi, di esaminare gli elementi che avrebbero assunto un peso rilevante per la decisione e che sono stati oggetto di discussione tra le parti. Ed infatti, ha aggiunto la ricorrente, il balcone della R. era sprovvisto di parapetto semplicemente perché lo stesso, come emerge dai rilievi fotografici acquisiti in giudizio, era in fase di ultimazione, con la conseguente necessità di tener conto del naturale evolversi della situazione in atto. La corte d’appello, quindi, oltre a violare le norme previste dagli artt. 900, 905 e 907 c.c., ha aggiunto la ricorrente, ha omesso di esaminare il fatto che l’ultimazione dei lavori relativi all’immobile dell’attrice avrebbe dovuto portare, secondo l’id quod plerumque accidit, alla realizzazione di un balcone, rispetto al quale la violazione delle distanze legali da parte degli appellanti risulta pacificamente acclarata. 4.Il motivo è infondato. Per configurarsi gli estremi di una veduta ai sensi dell’art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alla regole di cui ai successivi artt. 905 e 907, è, infatti, necessario che le cd. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente , siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza Cass. n. 18910 del 2012 Cass. n. 7267 del 2003 . Nel caso di specie, la corte d’appello ha accertato, in fatto, con valutazione non sindacabile in questa sede, che il balcone della R., in quanto privo di parapetto, non consente una comoda e non pericolosa inspectio , essendo manifestamente inidoneo a preservare l’eventuale osservatore dal pericolo di cadute . Né rileva il fatto, che la corte d’appello avrebbe omesso di esaminare, secondo il quale il balcone è privo di parapetto solo perché ancora in costruzione. La sentenza impugnata, in quanto depositata dopo l’11/9/2012, è, infatti, assoggettata all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza del giudice d’appello può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite Cass. n. 8053 del 2014 , tale norma consente di denunciare in cassazione solo l’anomalia motivazionale che - relativamente al solo giudizio di fatto - si tramuta in una violazione del minimo costituzionale richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile, tra l’altro, nelle ipotesi, che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza, in cui tale anomalia sia dedotta come omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia Cass. n. 23940 del 2017 Cass. n. 14014 del 2017, in motiv. Cass. n. 9253 del 2017, in motiv. Cass. n. 7472 del 2017 . Il ricorrente, quindi, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, deve indicare non una questione o un punto della sentenza, quanto il fatto storico , principale ovvero secondario cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività Cass. n. 14014 del 2017, in motiv. Cass. n. 9253 del 2017, in motiv. Cass. n. 20188 del 2017, in motiv. . Nel caso in esame, invece, la ricorrente non ha chiarito, con la dovuta specificità e chiarezza, dove e quando abbia dedotto in giudizio il fatto il cui esame la corte d’appello avrebbe omesso, e cioè che il suo balcone era privo di parapetto solo perché ancora in costruzione. 5. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver escluso che il balcone, in aderenza al quale la controparte ha realizzato la struttura oggetto del gravame, non era identificabile come veduta, non lo ha qualificato, applicando il principio iura novit curia, come una parte integrante dell’unità abitativa, con la conseguente applicazione delle diverse norme in materia di distanze legali tra le costruzioni, previste dagli artt. 873 ss c.c., che la ricorrente ha invocato nel corso del giudizio. 6.Il motivo è infondato. La disciplina di cui all’art. 907 c.c., relativa alla distanza delle costruzioni dalle vedute, ha, infatti, natura giuridica, presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da quelli relativi alla disciplina di cui all’art. 873 c.c. che regolamenta la distanza tra le costruzioni al diverso fine di evitare la formazione di intercapedini dannose, con la conseguenza che al proprietario che richieda in giudizio la tutela del suo dominio da abusi del vicino concretantisi in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni, non può essere accordata, perché estranea all’oggetto della sua domanda, la tutela di diritti di veduta e non può, pertanto, disporsi l’arretramento di una sopraelevazione per il mancato rispetto della distanza da tale veduta, invece che per il mancato rispetto della distanza tra costruzioni Cass. n. 4087 del 2000 conf. Cass. n. 10622 del 2017 Cass. n. 16808 del 2016 . E ciò vale, evidentemente, anche nell’ipotesi inversa, cui è riconducibile la fattispecie in esame. 7.Il ricorso dev’essere, dunque, rigettato. 8.Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. 9.La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte così provvede rigetta il ricorso condanna la ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 2.900,00, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15% dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.